
Love is Blind è un reality show nato su Netflix nel 2020 che ha rivoluzionato i format di dating tradizionali. L’idea è semplice e radicale allo stesso tempo: uomini e donne si conoscono e si innamorano senza mai vedersi, parlando soltanto attraverso una parete nelle cosiddette pods. Se nasce una connessione autentica, arriva la proposta di matrimonio prima ancora di incontrarsi di persona. Solo dopo inizia la vera prova: convivere, conoscersi davvero, scoprire se quell’amore nato “al buio” può reggere alla realtà quotidiana.
Love is Blind funziona perché ribalta la grammatica classica dei dating show: non più l’attrazione immediata, i corpi in mostra, il colpo di fulmine costruito davanti alle telecamere, ma un esperimento sociale che mette alla prova la sostanza delle relazioni prima ancora della forma. Le coppie si conoscono senza vedersi, affidandosi soltanto alle parole, alle pause, alle sfumature della voce.
È un format che piace perché gioca sull’attesa e sull’immaginazione: lo spettatore partecipa al dubbio, proietta desideri e aspettative, si chiede se l’intesa emotiva sopravviverà allo svelamento fisico. Dentro c’è la tensione di una scommessa: quanto l’amore dipende dall’aspetto esteriore e quanto invece dalla capacità di costruire un dialogo autentico?
Rispetto ad altri reality, Love is Blind riesce a unire leggerezza e profondità. Intrattiene, certo, ma allo stesso tempo solleva domande che toccano tutti: cosa significa scegliersi davvero? quanto peso hanno i pregiudizi estetici? quanto resistono i legami al di fuori della bolla televisiva? In questo equilibrio tra curiosità voyeuristica e riflessione sul bisogno universale di sentirsi amati, sta la forza di un format che, stagione dopo stagione, continua a generare discussione e a catturare l’attenzione.

Dalla tribou di Zazibou