Oltre Dylan Dog: geografie del fumetto secondo Giorgio Pontrelli. L’intervista.

INTERVISTECULTURASettembre 23, 2025

Confrontarsi con Dylan Dog significa misurarsi con una delle icone più longeve e stratificate della cultura pop italiana. Giorgio Pontrelli è tra gli autori che negli ultimi anni hanno contribuito a rinnovarne l’immaginario, mantenendo intatta la dimensione gotica e perturbante del personaggio e, al contempo, imprimendo uno sguardo personale, capace di dialogare con le estetiche consolidate e con le inquietudini del presente.

Ma la sua traiettoria non si esaurisce qui: formatosi all’interno della scena fumettistica italiana, ha attraversato universi narrativi differenti, firmando storie come Lucky Red/Gazzetta dello Sport (Lo chiamavano Jeeg Robot, film cult del 2016) e per Mondadori Comics (Kriminal). Ha lavorato con Disney (Monster Allergy), DC Comics (Batman), IDW (G.I.Joe), Afther Shock (Miskatonic miniserie) pubblicata in Italia da SaldaPress, Dynamite (James Bond 007, Last of the Gladiator), Z2comics (Pantera e Cypress hill), Mad Cave Studio (Circus maximus, miniserie), Heavy Metal, Eura Editoriale (John Doe, Detective Dante, Trapassati inc. Liberi e Copertine), RW Lion, Edizioni BD (Il Brigadiere Leonardi di C. Lucarelli), Rainbow Tridimentional (Winx , Pixie e Maya Fox) solo per citarne alcune.

Il tratto di Pontrelli restituisce sempre una drammaturgia visiva che mette in relazione la precisione del segno con l’ambiguità emotiva delle storie. La sua opera si colloca così in un territorio di confine in cui il fumetto si conferma medium ibrido: luogo di intrattenimento ma anche di riflessione sul presente, capace di dare forma tanto al perturbante quanto al quotidiano.

Con lui, ospite di Jabba! Salento Cinecomics Salento, abbiamo discusso delle origini della sua passione, delle responsabilità che comporta disegnare personaggi iconici e della funzione che il fumetto può ancora svolgere oggi come linguaggio critico, oltre che narrativo.

Giorgio Pontrelli

Se pensi ai tuoi inizi, al momento in cui il fumetto è diventato per te più di una lettura e hai cominciato a immaginare di farne un mestiere, cosa c’è in quell’origine? Un incontro con un autore, un albo preciso o una passione che cresceva lentamente?

Non saprei dirti quando è iniziato davvero, perché in fondo ho sempre disegnato: per me non è mai stato un fuoco improvviso, ma più una necessità naturale, come respirare. Però, se devo individuare un momento preciso, forse è stato nel ’95, quando all’Istituto d’Arte di Bari Pino Pascali affrontammo il tema del fumetto nell’arte, in occasione dell’Expo Comics alla Fiera del Levante. Lì ho scoperto la sintesi del segno e l’entusiasmo che mi dava tracciarlo.

Dylan Dog è un personaggio che appartiene all’immaginario collettivo, quasi come una figura mitologica contemporanea. Che responsabilità senti, nel maneggiare una creatura che appartiene a milioni di lettori?

Io sono uno di quei milioni di lettori che amano Dylan. Prima ancora di disegnarlo, l’ho amato da lettore. Per questo lo maneggio con cura: mi concentro sul suo carattere, su come affronterebbe le situazioni. Cerco sempre di rispettare quella memoria collettiva, sperando di aggiungere qualcosa di mio senza mai tradirne lo spirito.

Nel fumetto la sceneggiatura è lo spartito, ma il disegnatore è anche interprete. Come ti muovi nel dare corpo e ritmo a una storia già scritta, senza mai snaturarla ma imprimendo comunque il tuo segno personale?

È sempre un compromesso. Ci sono sceneggiature molto libere e altre più dettagliate. Io cerco di rispettare l’idea iniziale, ma se durante la costruzione mi accorgo di visualizzarla in un altro modo, la seguo. A volte lo concordo con sceneggiatore ed editor, altre volte basta il segno per dare la mia interpretazione.

copyright Giorgio Pontrelli

Hai lavorato molto sull’horror e sul noir. Come cambia il modo di disegnare la paura in un periodo in cui siamo costantemente colpiti da immagini cruente o disturbanti, anche fuori dalla finzione?

Hai ragione: oggi la paura spesso non è nel mostro classico, ma nel quotidiano. È nelle sfide personali, nell’accettarsi, nell’integrazione. A volte ha il volto di un incubo interiore, altre volte quello di una realtà che fa più paura della finzione. Per questo mi interessa raccontare la paura come condizione umana, non solo come immagine disturbante.

A volte, nelle vignette, non ci sono solo “azioni”, ma veri momenti di sospensione, di silenzio. Come si disegna il tempo?

Nel fumetto ci sono regole precise: pieni e vuoti, azioni che iniziano e finiscono. Ma la vera sfida è la sospensione, l’immortalità del momento. Quella è la parte più bella e misteriosa. A me aiuta molto l’empatia con i personaggi: se riesco a sentire la loro emozione, posso tradurla in un tempo che il lettore percepisce.

Dylan Dog è sempre stato vicino alla letteratura gotica, al cinema, alla musica. Quali sono i tuoi riferimenti extra-fumetto che entrano nel tuo lavoro, anche senza che il lettore se ne accorga?

Oltre alla letteratura classica e ad alcuni film – penso all’horror e al noir, ma anche a certi registi che sanno lavorare sull’attesa – mi influenza molto la cronaca. Gli eventi della vita reale, e le giustificazioni che le persone si danno per affrontarli, mi aiutano a immaginare azioni più verosimili e radicate nel presente.

In che modo il tuo segno si è evoluto negli anni? E quanto è stato influenzato dagli autori che amavi da lettore?

Sono stato influenzato tantissimo dagli autori che amavo da lettore. Amo sperimentare, cambiare, e negli anni ho lavorato molto per sottrazione: a volte verso il bianco, a volte verso il nero. Guardo continuamente il lavoro degli altri, perché credo che ogni autore che stimo mi insegni qualcosa, mi spinga a fare meglio e a tenere il segno sempre vivo e interessante.

Un aspetto forte del tuo lavoro è la resa delle emozioni: malinconia, ironia, disperazione. Quanto è difficile, per un disegnatore, far passare un sentimento in una piega del volto, e non solo in un colpo di scena?

Per me è fondamentale. Una buona parte del lavoro è descrivere scene, luoghi, personaggi, ma quando si passa dalla descrizione alla narrazione è lì che arriva il bello. Basta un millimetro in più, una linea più tesa o più morbida, per cambiare il risultato. Ancora oggi mi affascina come un segno possa trasformarsi da descrittivo a emotivo: è la sfida più difficile, ma anche quella che mi motiva di più.

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