L’Isolo di Maicol&Mirco, uno spazio minimo che diventa teatro di riflessioni universali. L’intervista.

INTERVISTELibriSettembre 20, 2025

Un uomo, una palma, il mare attorno: sembra poco, ma in realtà è tutto. L’Isolo, l’ultimo lavoro di Maicol & Mirco, si presenta come un microcosmo ridotto all’osso, circondato da quello che gli autori chiamano “la televisione di Dio”. Uno spazio minimo che diventa teatro di riflessioni universali, dove l’assenza diventa presenza ingombrante, il silenzio rumore, la vita epica. Dopo gli Scarabocchi, questo libro radicale sembra segnare un passaggio ulteriore: dal segno istintivo al vuoto carico di significati, dalla battuta al pensiero, dalla risata alla tragedia.

In occasione di Jabba! Salento Cinecomics Festival, abbiamo incontrato Maicol&Mirco per parlare di isole e deserti, di ironia come strumento conoscitivo, di personaggi che si ribellano ai loro stessi autori e di quella semplicità ingannevole che, come nella musica di Lou Reed, è solo apparente.

L’Isolo appare come un microcosmo ridotto all’essenziale: una palma, un uomo, una lucertola, circondato “dalla televisione di Dio”. In questo spazio minimo, però, si spalanca un universo di riflessioni esistenziali. Da dove nasce questa scelta radicale di sottrazione e in che misura rappresenta un modo per parlare dell’essere umano nella sua nudità più autentica?


Le storie degli Scarabocchi sono un deserto. Pochissimi personaggi, pochissimi segni, pochissime parole, spesso niente paesaggi, niente sfondi, niente luoghi. Le storie degli Scarabocchi sono piene di assenze. D’altronde la storia dell’umanità, nonostante i suoi otto miliardi di abitanti, è una storia di assenze. Si diventa adulti quando non ci sono più i genitori, mica a diciotto anni. L’assenza è presenza più ingombrante nella nostra vita. A partire dall’assenza di Dio. Anche questa storia non sfugge alle grandi assenze, neppure quando si fugge su un’isoletta sperduta. Però ne L’Isolo le presenze sono accecanti. La palma diventa casa. L’isoletta, regno. La lucertola, vita. Il mare, bellezza. È forse il primo libro de Gli Scarabocchi in cui la morte non viene avvertita. È un libro radicale, è vero, ma perché parla di vita.


Il legame con i tuoi “Scarabocchi” è evidente, ma qui sembra compiersi un passo ulteriore: dal segno veloce e istintivo si passa a un teatro di pensieri, di pagine bianche e dunque silenzi. Cosa significa per te questa continuità e quale rottura invece introduce L’Isolo nella tua ricerca artistica?

Il silenzio, o meglio la pausa, è la cosa che più ci ha sempre affascinato nel fumetto. Tra una vignetta e l’altra, in quel microscopico spazio bianco, può passare un secondo come cent’anni. Il silenzio è la cifra più rumorosa nel fumetto contemporaneo. Poi i nostri personaggi dicono parole molto faticose. Occorre farli riposare (assieme al lettore), tra un dialogo e l’altro. L’Isolo è forse il nostro libro più primitivo.

L’isola è da sempre una metafora ambivalente: rifugio e prigione, luogo di libertà e di solitudine estrema. Nel tuo lavoro emerge questa doppia tensione e l’Isolo sembra una figura al tempo stesso fragile e assoluta, apparentemente buffa e scontrosa, ma capace di intuizioni altissime. In che misura possiamo leggerlo come un tuo alter ego, e quanto invece come una creatura totalmente autonoma, dotata di un proprio libero arbitrio narrativo e simbolico?


Vorremmo tranquillizzare tutti: non c’è niente di Maicol & Mirco nei nostri personaggi. E per fortuna! I nostri personaggi sono liberi dagli autori. Possono vivere e morire come vogliono. Il protagonista de L’Isolo poi è un vero Gilgamesh, solo che la sua epica di consuma in due metri quadri di rocce. Anche se le vere protagoniste sono le migliaia di miglia di mare che lo separano da noi. L’isolo racconta forse di tutti, perché da tutti equidistante.


Nei tuoi fumetti convivono il registro dell’ironia e quello della filosofia, il riso e il pensiero. Quanto credi che l’ironia sia non solo una cifra stilistica, ma uno strumento conoscitivo, una lente attraverso cui leggere la realtà contemporanea?

Le storie de Gli Scarabocchi sono storie per far piangere, questo lo abbiamo capito osservando le gesta dei nostri personaggi. L’ironia e la risata sono solo il modo più efficace per arrivare alla tragedia. Se vuoi far piangere qualcuno, raccontagli qualcosa di orribile in mezzo a cento barzellette. Fantozzi docet.

Il confronto con l’introduzione di Paolo Rossi è affascinante: lui dice che, come nella musica di Lou Reed, il lettore pensa di poter replicare ciò che fai, ma poi scopre che non è così. Ti riconosci in questa analogia? E qual è, secondo te, il rischio o l’inganno più grande della “semplicità” in arte?

L’arte è semplice, semmai gli artisti sono complicati. E gli spettatori, complicatissimi.

Ogni lettore, incontrando Isolo, sembra invitato a chiedersi: “E io, su quell’isola, come mi comporterei?”. Ti aspetti che il lettore si rispecchi in Isolo o che lo osservi da lontano, come un esperimento esistenziale? Cosa ti auguri che rimanga al termine della lettura?

Un buon libro, si inizia a leggerlo davvero solo una volta terminata la lettura. Un vero libro non ti permette di terminarlo. Questo ci auguriamo per L’Isolo.

Il fumetto, per la sua immediatezza e il suo linguaggio ibrido, è spesso considerato un mezzo “popolare”. Eppure, nei tuoi lavori diventa anche strumento di pensiero e di critica. L’Isolo nasce come un episodio unico o pensi che possa essere destinato a restare confinato al suo isolotto o immagini che possa viaggiare, contaminarsi, incontrare altri mondi e altre voci?

L’Isolo è lì, potete visitarlo quando volete. Se riuscite a trovarlo. Che poi non è difficile: basta seguire il mare.

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